lunedì 25 giugno 2012

Latinomérica te amo



Latinomérica te amo


Qui dove siamo giunti, l’occhio
può già abbastanza spaziare.
Posiamo i sacchi. Forzare
la marcia, ed avanzare
ancora, più che saggezza
penso che potrebb’essere un segno,
per noi tutti, di stoltezza.

G. Caproni, Prudenza della guida

C'era una volta... - Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un viaggio". Un viaggio nel quale noi tutti ci siamo imbarcati prima o poi per arrivare all’approdo sudamericano. In una maniera o nell’altra abbiamo deciso di approfondire l’ancoraggio. In diversi siamo rimasti in zona ed è a voi che rivolgo questa nota.

Me ne andavo senza guida e con una mappa da due pesos per le incerte strade della Bolivia. Avevo, come tutti, il mio fardello di pensieri. Il mio rovello. Il tarlo che non cessa mai di scavarti il cervello. Quello se ne sta sempre lì e non demorde. Cito un mio caro amico “il samsara è una casa in fiamme”. È stato lo sguardo di un cane a tirarmi fuori dall’apnea e a riportarmi con i buchi di naso al pelo dell’acqua. Non ve la sto a far troppo lunga. Io personalmente sono arrivato a questa conclusione: c’è un possibile maestro in ogni essere senziente.

Accolgo il suggerimento del cane e mi metto sulla strada per la Higuera. Un luogo sperduto sulle montagne della zona sudorientale della Bolivia. Si è proprio quel posto lì dove ammazzarono il Che.

Giunto che fui mi registrai come dozzinante nella pensioncina de Los amigos, un posto raccomandabile zipillo di poesia e guevarismo. I proprietari, Christian e Nanù, sono una coppia di francesi randagi che hanno trovato qui il loro sehnsucht. Mi informano che non sono l’unico pensionate. Mi dicono qualcosa a proposito di un australiano e un argentino che viaggiano insieme e stanno facendo un documentario. Bah! Sono stanco.

Mi tiro a la cama  svengo u paio d’ore. Già è l’imbrunire e verso le 8 sento bussare piano alla porta di camera: La voce sottile, roca e graffiata di Nanù mi avvisa: Andrea! Ha llegado la gente? Ve lo immaginate? In un paesino di 40 anime? La gente è arrivata! Epifanie.
Agustín Lagos e Richard Sturdy, al secolo Ricardito Robusto. Piacere: Gespo.

Ecco qui comincia l’altro viaggio. Un documentarista argentino, uno scrittore australiano e un cantastorie italiano. Un bell’incipit per una barzelletta no?. È un mese di marcia serrata per una Bolivia che si rivela con volti e tratti incredibili. Il quarto compagno di viaggio è la telecamera che si accende a registrare le immagini che da ogni parte ci investono e ci trascinano via. Agustìn ha una idea ben precisa. La Bolivia è il primo capitolo di un documentario a più ampio respiro che riguarderà tutta l’America Latina. 

Saranno le immagini le vere protagoniste, poco dialogo, niente copione. Sembra di seguire l’avverarsi dell’intuizione simoniana dell’homovidens però con una accezione positiva e affascinante. Mi spiego meglio. Il bagaglio di informazioni che possediamo per cultura o per censo ci permette di tradurre in sensazioni e percezioni le immagini che scorrono nel primo capitolo di Latinoamèrica te amo

È già molto quello che sappiamo dell’umana specie che risulterebbe pleonastico aggiungere didascalie e sceneggiature ai quattro corti di Bolivia te amo
Paraisos de altura. Uno spaccato di paesaggi immensi improvvisamente interrotti dal roboante esplodere del Carnaval de Oruro, con i suoi demoni (diabladas) e le sue danze tipiche. 
Julio y la coca. La hoja sagrada. Quanto sappiamo della coca? Al solo pronunciarla s’avvia un turbinio di idee che vanno dal trasgressione pecoreccia, all’eccesso, allo yuppismo rivoltante fino al sincretismo religioso, al ritualità ancestrale all’atto devozionale. Eppure in tutto questo andirivieni di pensieri non ce ne uno rivolto a loro, ai lavoratori delle piantagioni di coca. Questo capitolo ci porta esattamente lì sulle tracce di Julio. Anche lui lavoratore che si alza la mattina, fa colazione, ascolta la radio, afferra gli arnesi del mestiere e s’avvia a lavoro. Incontra i compagni (colleghi?), scambia due chiacchere all’ombra di un tetto di paglia e poi s’avvia per le prode coltivate a erythroxylum coca.
Little Richard en la paz è un capitolo divertente in cui un australiano di 2 metri s’incontra con una città fuori misura. Una città immensa, caotica, frenetica, un cono con la punta rivolta verso il basso che d’impatto di ricorda le sezioni dell’inferno di Dante del manuale delle superiori. E per assurdo questa città si chiama La Paz. La pace? E dove si trova qui la pace? Ricardito lo scopre.
La higuera del che. I buitres volano bassi quando don Poli si china a togliere le erbacce dalle prode di patate e mais della sua finca. Si siede su uno sgabello di legno, tocca due note di un charango, è una canzone che ha composto per il Che. Non sapeva molto di rivoluzione quando era giovane. Solo aveva sentito correre la voce che per quei boschi si nascondevano dei guerriglieri comandati da un uomo che metteva paura. E quando il Che se lo incontrò faccia a faccia il giovane don Poli paura ebbe, ma lo stesso diede cibo e rifornimenti a quei capelloni scamiciati. Don Poli, il popolo per il quale le rivoluzioni in teoria combattono. Le sue parole sono stalagmiti che arrivano dritte al centro del cuore. E spenta la telecamera ci racconta che suo figlio vive nella gigante Europa e lo invita a raggiungerlo. O che la rossa cuba gli offre casa e pensione nell’isola e che lui rifiuta l’una e l’altra offerta perché la sua vita e lì, nel suo campo, con i suoi animali, con la sua gente in quell’Higuera di 40 anime. Proprio lì dove, quarantacinque anni fa in una scuolina nel centro del paese, un militare vigliacco, ebbe soddisfazione nell’ammazzare degli uomini legati mani e piedi. Uno dei quali era Ernesto Guevara de la Serna. Don Poli ne fu testimone suo malgrado. Costretto poi a spostare quei corpi perché un elicottero se li portasse via. E che….
Mi fermo qui ma vi lancio l’invito. 

E vi lascio un paio di agganci
http://latinoamericateamo.blogspot.com
http://www.youtube.com/watch?v=eszxfGPqaOw