Latinomérica te amo
Qui dove siamo giunti, l’occhio
può già abbastanza spaziare.
Posiamo i sacchi. Forzare
la marcia, ed avanzare
ancora, più che saggezza
penso che potrebb’essere un segno,
per noi tutti, di stoltezza.
G. Caproni, Prudenza
della guida
C'era una volta... - Un re! - diranno subito i miei piccoli
lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un viaggio". Un
viaggio nel quale noi tutti ci siamo imbarcati prima o poi per arrivare
all’approdo sudamericano. In una maniera o nell’altra abbiamo deciso di
approfondire l’ancoraggio. In diversi siamo rimasti in zona ed è a voi che
rivolgo questa nota.
Me ne andavo senza guida e con una mappa da due pesos per le
incerte strade della Bolivia. Avevo, come tutti, il mio fardello di pensieri. Il
mio rovello. Il tarlo che non cessa mai di scavarti il cervello. Quello se ne
sta sempre lì e non demorde. Cito un mio caro amico “il samsara è una casa in
fiamme”. È stato lo sguardo di un cane a tirarmi fuori dall’apnea e a
riportarmi con i buchi di naso al pelo dell’acqua. Non ve la sto a far troppo
lunga. Io personalmente sono arrivato a questa conclusione: c’è un possibile
maestro in ogni essere senziente.
Accolgo il suggerimento del cane e mi metto sulla strada per la
Higuera. Un luogo sperduto sulle montagne della zona sudorientale della
Bolivia. Si è proprio quel posto lì dove ammazzarono il Che.
Giunto che fui mi registrai come dozzinante nella pensioncina de
Los amigos, un posto raccomandabile zipillo di poesia e guevarismo. I
proprietari, Christian e Nanù, sono una coppia di francesi randagi che hanno
trovato qui il loro sehnsucht. Mi informano che non sono l’unico pensionate. Mi
dicono qualcosa a proposito di un australiano e un argentino che viaggiano
insieme e stanno facendo un documentario. Bah! Sono stanco.
Mi tiro a la cama svengo
u paio d’ore. Già è l’imbrunire e verso le 8 sento bussare piano alla porta di
camera: La voce sottile, roca e graffiata di Nanù mi avvisa: Andrea! Ha llegado
la gente? Ve lo immaginate? In un paesino di 40 anime? La gente è arrivata!
Epifanie.
Agustín Lagos e Richard Sturdy, al secolo Ricardito Robusto.
Piacere: Gespo.
Ecco qui comincia l’altro viaggio. Un documentarista argentino,
uno scrittore australiano e un cantastorie italiano. Un bell’incipit per una
barzelletta no?. È un mese di marcia serrata per una Bolivia che si rivela con
volti e tratti incredibili. Il quarto compagno di viaggio è la telecamera che
si accende a registrare le immagini che da ogni parte ci investono e ci
trascinano via. Agustìn ha una idea ben precisa. La Bolivia è il primo capitolo
di un documentario a più ampio respiro che riguarderà tutta l’America Latina.
Saranno le immagini le vere protagoniste, poco dialogo, niente copione. Sembra
di seguire l’avverarsi dell’intuizione simoniana dell’homovidens però con una
accezione positiva e affascinante. Mi spiego meglio. Il bagaglio di
informazioni che possediamo per cultura o per censo ci permette di tradurre in
sensazioni e percezioni le immagini che scorrono nel primo capitolo di Latinoamèrica te amo.
È già molto quello
che sappiamo dell’umana specie che risulterebbe pleonastico aggiungere
didascalie e sceneggiature ai quattro corti di Bolivia te amo.
Paraisos de
altura. Uno spaccato di paesaggi immensi improvvisamente interrotti dal
roboante esplodere del Carnaval de Oruro, con i suoi demoni (diabladas) e le
sue danze tipiche.
Julio y la coca.
La hoja sagrada. Quanto sappiamo della coca? Al solo pronunciarla s’avvia un
turbinio di idee che vanno dal trasgressione pecoreccia, all’eccesso, allo
yuppismo rivoltante fino al sincretismo religioso, al ritualità ancestrale
all’atto devozionale. Eppure in tutto questo andirivieni di pensieri non ce ne
uno rivolto a loro, ai lavoratori delle piantagioni di coca. Questo capitolo ci
porta esattamente lì sulle tracce di Julio. Anche lui lavoratore che si alza la
mattina, fa colazione, ascolta la radio, afferra gli arnesi del mestiere e
s’avvia a lavoro. Incontra i compagni (colleghi?), scambia due chiacchere
all’ombra di un tetto di paglia e poi s’avvia per le prode coltivate a erythroxylum
coca.
Little Richard en la paz è un
capitolo divertente in cui un australiano di 2 metri s’incontra con una città
fuori misura. Una città immensa, caotica, frenetica, un cono con la punta
rivolta verso il basso che d’impatto di ricorda le sezioni dell’inferno di
Dante del manuale delle superiori. E per assurdo questa città si chiama La Paz.
La pace? E dove si trova qui la pace? Ricardito lo scopre.
La higuera
del che. I buitres volano bassi quando don Poli si china a togliere le
erbacce dalle prode di patate e mais della sua finca. Si siede su uno sgabello
di legno, tocca due note di un charango, è una canzone che ha composto per il
Che. Non sapeva molto di rivoluzione quando era giovane. Solo aveva sentito
correre la voce che per quei boschi si nascondevano dei guerriglieri comandati
da un uomo che metteva paura. E quando il Che se lo incontrò faccia a faccia il
giovane don Poli paura ebbe, ma lo stesso diede cibo e rifornimenti a quei
capelloni scamiciati. Don Poli, il popolo per il quale le rivoluzioni in teoria
combattono. Le sue parole sono stalagmiti che arrivano dritte al centro del
cuore. E spenta la telecamera ci racconta che suo figlio vive nella gigante
Europa e lo invita a raggiungerlo. O che la rossa cuba gli offre casa e
pensione nell’isola e che lui rifiuta l’una e l’altra offerta perché la sua
vita e lì, nel suo campo, con i suoi animali, con la sua gente in quell’Higuera
di 40 anime. Proprio lì dove, quarantacinque anni fa in una scuolina nel centro
del paese, un militare vigliacco, ebbe soddisfazione nell’ammazzare degli
uomini legati mani e piedi. Uno dei quali era Ernesto Guevara de la Serna. Don
Poli ne fu testimone suo malgrado. Costretto poi a spostare quei corpi perché
un elicottero se li portasse via. E che….
Mi fermo qui ma vi lancio l’invito.
E vi lascio un paio di agganci
http://latinoamericateamo.blogspot.com
http://www.youtube.com/watch?v=eszxfGPqaOw