mercoledì 27 febbraio 2013

Con le mani nei capelli!


Di: Beatrice Bartolozzi e Giulia Di Stefano

Chi, da bambino, non ha avuto la tentazione di non pettinarsi più i capelli per sentirsi libero di sognare nidi di uccellini sulla sua testa, o piccoli mostri da portare a passeggio…Quando la noia ci attanaglia vorremmo nuove capigliature da sfoggiare in pubblico, da cambiare per ogni occasione per trasformarci in personaggi di nuove storie!
Il laboratorio “Con le mani nei capelli!” realizzato alla Biblioteca  delle Oblate nel periodo di carnevale giocava proprio su questi presupposti.


Era rivolto ai bambini dai 5 anni in su e alle loro famiglie. Con Giulia abbiamo pensato di preparare dei modelli di parrucche da poter realizzare con facilità, utilizzando materiali semplici e di recupero, come cartoncini, carta velina, carta di giornali e riviste, tanta colla e una spillatrice.

Quindi i bambini avevano la possibilità di creare tantissimi tipi di parrucche: con i boccoli, modello veneziano, lisce stile egiziano, con creste stile folletto dei boschi. Naturalmente c’era spazio per personalizzare e quello che ne è venuto fuori è stato, come sempre, tutta un’altra cosa, nel senso che ognuno ha modificato e interpretato la parrucca a modo suo. È sorprendente vedere come, con lo stesso semplice materiale a disposizione, possano nascere creazioni così diverse e interessanti
 Un altro aspetto positivo è quello della collaborazione dei genitori: intere famiglie che si riuniscono e giocano insieme divertendosi, come la famiglia B., composta da tre bimbe di età diversa e due genitori molto creativi. E’ stata l’ultima ad andar via e quella che più ci ha sorpreso: le bambine hanno realizzato parrucche molto carine, unendo boccoli di carta bianca a strisce di giornale, cartoncino e carte veline per il velo!

Insieme ai genitori hanno sviluppato una maschera tutta loro, con occhialetti e bacchetta magica. A questo punto hanno inventato anche un amico immaginario, un personaggio, detto Lilly, con cui giravano per la biblioteca scherzando e ridendo.







Lo stesso vale per altri bambini, che si sono costruiti accessori come corone, maschere con pinna da squalo per inventare nuovi giochi con gli amici.  Quello che più ci piace è osservare che tutto ciò che creano i bambini ha un senso e diventa parte integrante dei loro giochi.




mercoledì 13 febbraio 2013

Cortázar y yo




“Leía tanto que algún médico llegó a recomendarle leer menos durante cinco o seis meses y salir más a tomar un poco de sol[1]

Oggi dodici febbraio passo svogliato in rassegna gli aggiornamenti dei social network, delle pagine dei giornali on line, dei sogni rattoppati in cassetti zeppi di quaderni scritti per la metá. M’imbatto ripetutamente nella mirada stroboscopica di Julio Cortazár e non l’ascolto, faccio un po’ finta di niente fino a quando, certa come il gorgoglio della caffettiera, m’arriva in faccia la data 12-02. Cortazar moriva d’un malaccio una ventinovina di anni fa. L’84 è già una data che fa parte dei miei ricordi. Avevo undici anni e frequentavo quel ricettacolo di persone dismetriche e amplificate che sono Lescuolemedie. In prima media prendevo tanti cazzotti dai ripetenti… Perché ero quattrocchi. Perché non capivo come funzionavano le cose. Perché m’incantavo sulle sciocchezze. Perché non sapevo giocare nell’ordine a baseball, a calcio, a basket, a palla a mano. Insomma in breve a nessuno sport che considerasse tra le sue regole fondamentali il gioco di squadra e l’uso di una palla. Non so se cronopios o famas, di certo no esperaza ero io. Ma c’erano buone probabilità già fin da quel lontano ’84 che avrei incontrato un giorno l’opera di Cortázar.
C’era scritto su quel muro della Iª E: “ Chi legge è il Gasparri”.
Perché quando tiri il sassino per giocare al gioco de mondo, (per noi campana), la Rayuela arranca e non puoi far altro che saltare, ora con un piede ora con due, per arrivare al Cielo e ridiscendere in Terra.
E quindi è stato uno strano modo di incontrarsi e innamorarsi. Le medie me le sono lasciate alle calcagna con tutto il loro carico di inutilità. Svanite nel nulla come il ciclostile, la riga a T, gli stantii collage del professore di disegno, i patetici saggi di piffero del prof di musica.

Dicevo l’incontro con Cortàzar è stato di quelli da innamoramento. Mi è capitato solo con rare donne e pochi scrittori. Con Ivan Illich mi successe più o meno lo stesso. La descolarizzazione della società mi cadde praticamente in mano da uno scaffale di una bibliotechina dimenticata da Dio, nell’ora inesistente quartiere 2 di Firenze. Anche per Cortazàr vale il luogo scomparso. Giravo per i sentieri della libreria Edison dalle parti di piazza della Repubblica. Ad un tratto l’occhiolino che mi fecero le stampe della cornice della copertina di Il giro del giorno in ottanta mondi nell’edizione ALET, m’arrestarono il passo strascicato. Presi in mano il volume, bello liscio. Le tonalità di grigio melangiato non mi lasciarono indifferente. La quarta di copertina un uppercut. C’è una foto. Ci volle qualche secondo perché l’occhio la mettesse a fuoco. È un fotomontaggio. Ve ne riporto la didascalia: Julio Cortàzar (in piedi a destra) e Julio Da Silva (in basso a sinistra) in un fotomontaggio che li ritrae con Toro Seduto, Buffalo Bill, Jhonny Baker e Crew Eagle[…]

Aprii velocemente il libro e mi congedai dalla realtà. Caddi inebriato nelle asparizioni gentili di immagini e parole. Rapito fermai il fruscio emiciclico delle pagine verso l’inizio del libro (ebbene si, non so voi ma io i libri li apro al contrario)…Lascai all’occhio fare la sua parte nel gioco della lettura azzardata. Sorse il samadhi a partire dal capoverso che mi traghettava verso l’immensità di queste poche righe: L’uomo dei nostri tempi, crede con facilità che la sua informazione filosofica e storica lo salvi dal realismo ingenuo. Durante conferenze universitarie e chiacchere da bar arriva ad ammettere che la realtà non è quella che sembra, ed è sempre pronto a riconoscere che i suoi sensi lo ingannano e la sua intelligenza gli produce una visione tollerabile ma incompleta del mondo. Ogni volta che pensa metafisicamente si sente più “triste e più saggio”. Ma la sua ammissione è momentanea ed eccezionale, mentre il continuum della vita lo colloca in pieno nell’apparenza, la concretizza intorno a lui, la riveste di definizioni, funzioni e valori. Quest’uomo è un ingenuo realista più che un realista ingenuo. Basta osservare il suo comportamento di fronte a tutto ciò che è eccezionale, insolito; o lo riduce a un fenomeno estetico o poetico[2].
Partorito da Cortazár mi diressi alla cassa. Pagai uscii. Era il 2006. I sei mesi in Repubblica Dominicana avevano avuto come effetto collaterale l’accendersi in me di una particolare sensibilità per l’argentinità. Cortázar diventó una specie di chiodo fisso. Di smania letteraria. Dovevo avere la sua opera e leggerla, possibilmente in lingua originale. La mia compagna di allora si presentó, di ritorno da un viaggio per il Sud America, con una copia di Rayuela in una stortignaccola edizione acquistata in una libreria de la Calle Corrientes. Scoprii una bocca, l’inesistenza del caso, la magia sottile che non si narra, le viuzze di una Parigi assorbita per osmosi (dato che ci sono stato solo mezza volta ed in totale stato di ubriachezza). Scoprii il gioco involontario dei salti di pagina, quello volontario del gliglico, quello involontario del vizio, quello volontario dell’amore. E Cortázar diventò il mio scrittore preferito. Boom, così d’un botto. Nel 2008 è il mio turno tra las calles de Buenos Aires. Arrivai  ai tre volumi tascabili bianchi e celesti dell’edizione Punto de Lectura. Il primi due vennero ben presto sfiancati nella brossura. Il terzo comincia a lamentare troppi orecchi. Ed è un continuo riprendere in mano racconti, novelle e giochi. Ha ragione Vargas Llosa che dice: En los libros de Cortázar juega el autor, juega el narrador, juegan los personajes y juega el lector, obligados a ellos por las endiabladas trampas que los acechan a la vuelta a la página menos pensada[3]
Arrivarono quindi anche gli scherzi, Fantomas contro i vampiri delle multinazionali[4]. Forse uno dei primi tentativi di graphic novel. Con dei supereroi… Ma dei supereroi… Susan Sontag, Alberto Moravia, Octavio Paz e naturalmente Cortazár. Eccolo lì intriso nella sua invenzione, nella sua mirada di sbieco, metterci a parte dell’esperienza maturata nel Tribunale Russell[5], nel ’75. S’inventa una setta fascista che vuole eliminare tutti i libri dalla faccia della terra. Ma l’eroe criminale mascherato Fantomas questa volta ha bisogno dell’aiuto degli intellettuali e li fa chiamare dalla sua assistente, una specie di Cleopatra Jones in tuta attillata verde.

E poi da quella lettura sono passati gli anni della migranza. Me ne sono andato a vivere a Buenos Aires per due anni. Facevo il bibliotecario in una piccola biblioteca scolastica. Il mio regno Borgesiano, custodito e protetto dallo sguardo seriamente miope di Juan Luis che spuntava dalle finistrelle di un kamishibai esposto sul mobile alle mie spalle. Un vezzo, un altarino votivo al lare dell’archivistica, allo scrittore dei mille mondi che si nascondono e si svelano a un passo dalla nostra sensibilità, ottusa dalle cose del mondo. Però nei cubi montessoriani delle librerie ad altezza di quattrenne, proprio alla lettera C stampata in un rosso marcato, c’è la costola che dice El discurso del oso. Tratta da Historias de cronopios y de famas. Un bel cartonato, rilegato e illustrato da Emilio Urberuaga. I bambini ne vanno matti… ma io più di loro. E talvolta, posate le carte e gli arnesi del meticoloso catalogatore, chiudo la porta che s’apre ai vociferanti corridoi, mi seggo tranquillo al riverbero della vetrata che dà sul cortile e accarezzo le belle e colorate pagine della storia, leggendola a voce alta.
Buenos Aires querido, se ne incontrano tanti di amori imboscati in pagine giallognole di libri di seconda mano, in edizioni arrangiate e malcerte, in testi buttati alla mercé della curiosità di lettori irriducibili. Ed è così ad esempio che ho incontrato Roberto Arlt, tra le vie del barrio de Flores. Il suo modo di scrivere tanto lunfardo da sembrare una sorta di italiano sbiascicato. Volete un esempio? Che credete voglia dire “Manga de pelandrones”?.
Però poi si dovette riprender la via dell’orto. Tornare a casa un po’ a orecchie basse, un po’ più sensibile a fior di pelle. Ed ecco che arriva come una folata di vento fresco in un giorno di calura un’amica di sempre che mi fa dono di un libro che ha come immagine di copertina uno di quei sogni rattoppati di cui sopra: un furgoncino della volkswagen con le ali. Campeggia un titolo in rosso… Gli autonauti della cosmostrada[6]. Poco sopra, due nomi: Julio Cortázar, Carol Dunlop. Ed ecco che ricomincia il viaggio. Quel viaggio che per fortuna o purtroppo non avrà mai fine perché fa parte della mia angustia di uomo smanioso.
Perse oramai le certezze, abbandonata l’esattezza della funzione, della definizione dei “valori” la poesia si è fatta più resistente e incisiva perché nasce dalla fanghiglia primordiale delle cose. L’estetica non mi colpisce più se fine a se stessa, se priva di un atto d’amore, se ingenua e mera rappresentazione dell’ego. E allora alzo la coppa a Julio Cortazár. Argentino per censo e scrittore per volere divino. Uomo di lettere e di grandi passioni. Mi sa che stasera mi fumerò una sigaretta alla sua memoria.

A Fondo con Julio Cortazar parte1 de 2


A Fondo con Julio Cortazar parte2 de 2







[1] http://es.wikipedia.org/wiki/Julio_Cortázar
[2] J. Cotazár, Il giro del giorno in ottanta mondi, Alet, 2006 pag. 34
[3] Nei libri di Cortázar gioca l’autore, gioca il narratore, giocano i personaggi e gioca il lettore, obbligati a questo dalla trappola diabólica che attende al girare ognuna di queste pagine inimmaginabili (nda.)
[4] J. Cortázar, Fantomas contro i deliri delle multnazionali, Derivi e Approdi, 2006
[5] Tribunale internazionale contro i crimini di guerra,
[6] J. Cortázar e C. Dunlop, Gli autonauti della cosmostrada. Overo un viaggio atemporale Parigi Marsiglia, Einaudi, 2012.