Strototototon… Il bandone della sede è su. Porta a vetro,
tendine tenente Sheridan…luci al neon e conseguenti due secondi di atmosfera da
capannone per la rifinitura tacchi… Acqua a scaldare, Mate o te verde? Vado sul
classico: Mate.
Tutto tranquillo, tutto in regola. Anche il laboratorio di
panini per la ricreazione delle scuole superiori accanto a noi è già aperto
stamattina. Sono le 8. Presto. È sabato. Tanti dormono, ma non tutti. Di certo
non io.
D’altro canto questo è il mio lavoro. Come quale? Il
narratore. Preferite cantastorie? O meglio animatore alla lettura? Mmm no
questa dicitura non è mai piaciuta a nessuno. Ne volete una moderna, una di
quelle che fa tanto personcina studiata, una con bollino d’artista?
Storyteller.
Ma sarà che io son tanto affezionato all’ispanico
cuentacuentos che spesso non ci faccio nemmeno più caso e dalla bocca mi esce
così, con tutto quell’appiccicottìo di “c” e di “t”.
Dicevo che questo è il mio lavoro. IlLavoroPiùBelloDelMondo.
O almeno cerco di fare in modo che lo sia. Sapete non ci credo tanto alla
dimensione segregativa e cubica del concetto di lavoro: otto ore, le ferie, il
contratto ecce cc. No che non siano cose giuste, sensate e ottenute a suon di
lotte. Ma io non mi ci sono mai appaiato. Come dire non sono mai riuscito a
entrare nella sagoma. E allora anche di sabato mattina tiro su il bandone perché
c’è un incontro da preparare, dei materiali da pensare e assemblare, delle
storie da rileggere, tagliare e rimontare. Ci sono dei giochi da costruire, dei
momenti da ponderare e delle esigenze da interpretare. Che tempo è oggi? Bello,
c’è il sole, è quasi un accenno di primavera. Sai che vuol dire questo? Che non
ci saranno molti bambini in biblioteca oggi. Ma non si può mai dire. Magari
alle quattro e mezzo, dopo una bella passeggiata digestiva, i genitori decidono
di passare dalle Oblate per un caffè sulla terrazza pubblica più bella del
mondo e allora può darsi che si affaccino alla sala di lettura. Proprio lì dove
ogni sabato, noi cuentacuentos, storyteller, animatori… noi Allibratori…
raccontiamo delle storie.
Tutti sul podio.
Vogliamo giocare con i bambini alle olimpiadi. Ho preparato un pannello grande
con un mondo stilizzato, schizzato a pennellate di tempera. Rilassante spazzonellare
colori di mondo. Poi ho costruito i cinque cerchi delle olimpiadi con dei
piatti scodella di plastica. Li ho colorati e sistemati nel centro del mondo:
Azzurro, nero e rosso. Giallo e verde.
Finito di dipingere mi son preso una pausa. Ho provato la
prima versione del gioco lanciando una pallina di carta nei piatti. Ma quella
rimbalzava sempre fuori. Un sorso di mate e un pensiero luuuuungo. Esco. Chiudo
la porta a vetri inforco la bici e me ne vado lungo l’Arno in cerca di un campo
coltivato. Ci sono due uomini che stanno vangando delle prode su un rivierasco
poco lontano. Mi avvicino ed entro nel quadro macchialiolo. Saluto. I due si
fermano, ricambiano e s’asciugano il sudore dalla fronte con l’avambraccio.
- “Avreste per caso una canna, come quelle lì delle viti da
darmi?”
- “Certo giovane. Come la vuoi corta o lunga?”
- “Corta va bene”. Me ne danno due. Lunghe…. Meglio.
Ritorno in sede e sulla soglia al caldo del solicino
marzolino mi dedico bucolico alla pulitura delle due stiance. Ne scelgo una e
ne ricavo una bacchetta di circa un metro. Poi la coloro con tante pennellate
di acrilici atossici. La metto ad asciugare fuori, infilata nel vaso del
rododendro della corte del palazzo: però fa colore.
Adesso ho chiara la variazione del gioco. Sarà una pesca
divertente. Mi mancano l’esca e i pesci. Beh i pesci poco male stampo un
fronteretro di un pesce preso da internet e lo ritaglio. Per l’esca invece mi
ricordo di un vecchio telefono in una scatola di materiali nel sottoscala. Lo
prendo lo smonto e dal citofono estraggo la calamita. Ecco fatto. Quando
incollo le due parti del pesce metto delle graffette sulla testa… all’interno.
Un pezzo di spago, pistola a caldo, qualche rifinitura per l’impugnatura e la
canna da pesca è bella che pronta.
La Maura è stata fino a tardi la sera prima a preparare
tutte le domande per i giochi delle due squadre di bambini che si sfideranno
sul moquettone verde delle Biblioteca delle Oblate.
Potrei andare avanti all’infinito e raccontarvi fino nei
minimi dettagli che cosa è venuto fuori da quest’incontro. Sapete, quando siamo
arrivati c’erano pochi iscritti… sette che poi si son trasformati in tre.
Abbiamo finito il laboratorio con una quindicina di esseri che hanno cominciato
a sbucare da ogni dove. Ma a parte la vanitas personale, l’orgoglio nel
partecipare al divertimento dei marmocchi, ci sono dei momenti precisi in cui
l’osservazione di ciò che sta accadendo tappa ogni rumore d’eccesso e ci porta
in un’altra dimensione fatta di una leggerezza così sottile e inconsistente da
ricevere tutto il nostro interesse… la nostra protezione… Non è facile pescare
uno di quei pesci di carta con una canna dall’esca magnetica. Un bambino di
sette anni scopre che ci voglion calma e pazienza, appena ne aggancia uno… la
prima cosa che fa, dopo aver esultato per la cattura, grida a tutti gli altri
“Ci vuole molta calma e concentrazione”. Al suono di queste parole mi sposto di
profilo affinché il mio corpo non ne tappi neppure un accento… devono arrivare
dritte alle orecchie degli altri bambini. Non importa, anzi, non esiste la
squadra avversaria. La voce del bambino è accolta… patrimonio dell’intero
gruppo passa veloce di bocca in bocca ed è tutto un mormorare e ripetere
“calma”… “concentrazione”. Le mani dosano il peso della canna colorata, la
bilanciano, provano l’effetto del pendolo con la corda che ondeggia sopra le
teste dei pesci di carta. Piano, piano. Capire la misura, la distanza, il tempo
il gioco e… la concentrazione. Iniziano a saltar fuori quei pesci che è una
meraviglia. Dopo ogni pesca c’è il gioco con le domande. E qui i gruppi si
ricompongono e la sfida si fa intensa. Sono domande difficili… le avevamo
pensate per un’utenza un po’ più variegata ma sapete una cosa? I due gruppi non
si scoraggiano. E se le riposte non ce le hanno se le inventano o le vanno a
cercare dai genitori. Ed è bene. Perché decidono spontaneamente di ricorrere a
una fonte di fiducia. Al grande che li accompagna. A una autoritas riconosciuta
e che è li a portata di mano, come un libro da sfogliare. “Io lo vado a
chiedere alla mia mamma perché lei si intende di cose antiche, mentre mio papà
è più tecnologico”, dice Alberto.
Tra pesche e giochi le squadre salgono e scendono la
classifica dei punti. C’è competizione e del sano spirito di sfida che in ogni
momento viene riassorbito dalla dimensione ludica e dalle risate.
Poi arrivano le storie. Sono storie prese da un libro per
grandi sapete? Belle e ricche storie di vita e sport. Di olimpiadi vinte
malgrado il fisico debilitato, malgrado la discriminazione, malgrado la guerra,
malgrado la politica, malgrado i giochi di potere… E il gruppo di sei settenni?
Che fa? Impone l’ascolto. Non so nemmeno come raccontarvelo. Vedete lo spazio
verde delle Oblate è davvero grande. In genere l’area degli incontri è una
parte di questo spazio delimitata da un divisorio di librerie di polistirolo.
Praticamente non ci sono ostacoli che diano una soluzione di continuità allo
spazio, quindi il brusio è sempre molto intenso e costante. Viene dai bambini
piccolissimi e dai genitori che stanno fuori dall’area di laboratorio. E nonostante
questo c’è stato un momento in cui la storia era così partecipata che il
silenzio si è imposto su tutta la stanza. Durato poco, alcuni secondi. Ma lo
abbiamo percepito forte e chiaro come uno sguardo sparato negli occhi. E in
questa implosione, tracimante concentrazione e calma, scovi la sensatezza della
narrazione, della storia condivisa, dello stare lì seduto in un time lapse in
cui sbocciano fondendosi le sensazioni di ogni singola persona che partecipa
del racconto… narratori inclusi.
Poi riprincipia il brusio… scioccato vieni ripartorito nelle
bolla di fretta e cene da preparare. Il laboratorio finisce. Si arrotolano le
carte. Si distribuiscono saluti e sorrisi. Sfiancati ci si avvia all’uscita e…
Beh questo è il lavoro che facciamo. E non saprei davvero come spiegarlo. Non bisogna
certo essere dei geni, né tanto meno avere dei titoli particolari, affatto… È
sufficiente sapersi agganciare a un pensiero distratto che ti passa di lato, o
intuire come un movimento rapido delle pupille possa denunciare un improvviso
cambio di umore.
Ma c’è dell’altro. È quello che io chiamo effetto maestro
Miyagi… Dare la cera togliere la cera… abbiamo parlato di storia, di
geografia, quando abbiamo giocato con le
olimpiadi Abbiamo sperimentato la fisica con la pesca magnetica e il pendolo.
Abbiamo arricchito il dizionario con i termini legati al mondo dello sport. E
quando ce ne siamo andati c’è rimasto nelle orecchie il brusio di un motto
uscito dai bambini. Ci vuole calma e concentrazione.