venerdì 28 dicembre 2012

GrimMagia


GrimMagia


Ma una notizia un po' originale
non ha bisogno di alcun giornale
come una freccia dall'arco scocca
vola veloce di bocca in bocca
F. Deandré, Bocca di rosa

Lo spazio verde del secondo piano nell’area ragazzi della biblioteca delle Oblate è una superficie di arrembaggi. Non ci sono piani sfalzati e, a parte un paio di scalini che danno al pannello delle proiezioni, ci si può muovere liberamente senza ostacoli. Per me è un sollucchero e mi dedico alla preparazione dell’ambiente di animazione con pochi facili gesti: via i cuscinoni menci, via i panchetti, tranne quelli che servono alla bisogna. Oggi lavoriamo sui Grimm. O meglio, oggi lavoriamo con le favole dei Grimm e per essere più precisi lavoriamo sulle versioni riscritte di alcune fiabe della coppia di filologi tedeschi.
Ovviamente si può pescare nel mare magnum della produzione contemporanea di storie che si ispirano a quelle fiabe classiche però, prima, mi voglio dilettare con un gioco che affonda le sue origini nella pura oralità. È un gioco semplice. Ho sistemato due panchetti in mezzo alla sala davanti al tavolo con la mia valigia e i miei libri. Panchetto arancione per il narratore, panchetto bianco per l’uditore. Invito un bambino ad entrare nello spazio che ho preparato mentre dico agli altri di restare fuori.
Mi siedo sul panchetto arancione e faccio accomodare il primo uditore sul panchetto bianco. Racconto queste poche righe. “A Milano c’è una casa strana, tonda fuori e vuota dentro, come una buccia d’arancia. All’interno c’è un prato verde, degli alberi, una casa a quattro punte, e intorno un porticato con tantissime colonne”[1]
Mi alzo faccio accomodare il mio uditore sullo sgabello del narratore e faccio entrare un altro bambino. Il suggerimento che do sarà uguale per tutte le volte a venire. Al narratore: “Racconta la storia così come te la ricordi. Nessuno ti correggerà o suggerirà per cui vai libero”. All’uditore: “Adesso ascolterai una storia cerca di ricordarla e poi la dovrai raccontare a tua volta”.
Sono passati una quindicina di bambini per quegli sgabelli ed ecco il risultato di questo bocca in bocca: “C’era una volta un arcobaleno che era fatto da più di sette colori, ed erano tutti freddi”.
Iniziamo a leggere.
Passiamo una quarantina di minuti tra storie di mostri, Biancaneve smarrita e Lupi ingiustamente arrestati. Poi tocca a loro creare delle storie e suggerisco di lavorare su un classico: Cappuccetto Rosso. Il libro di Bordiglioni La congiura dei Cappuccetti è sempre un’ottima sponda al laboratorio di riscrittura di fiabe. Ho preparato dei titoli da estrarre da una scatola rossa, e delle copertine che serviranno a rilegare le storie. Formo i gruppi e “Avete cinque minuti, ragazzi” Son cinque minuti che non sono fatti di sessanta secondi l’uno. Questi son minuti percettivi. Scanditi dal murmure sottile di cervelli in fuga fiabesca. Il risultato è esilarante, io rido sempre molto nel riascoltare le storie prodotte. Ad ogni modo abbiamo passato un’ora e mezzo piacevole. Vi lascio alla lettura. Buon anno.



[1] R. Piumini, Le avventure del folletto Bambilla, Mondadori.

lunedì 25 giugno 2012

Latinomérica te amo



Latinomérica te amo


Qui dove siamo giunti, l’occhio
può già abbastanza spaziare.
Posiamo i sacchi. Forzare
la marcia, ed avanzare
ancora, più che saggezza
penso che potrebb’essere un segno,
per noi tutti, di stoltezza.

G. Caproni, Prudenza della guida

C'era una volta... - Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un viaggio". Un viaggio nel quale noi tutti ci siamo imbarcati prima o poi per arrivare all’approdo sudamericano. In una maniera o nell’altra abbiamo deciso di approfondire l’ancoraggio. In diversi siamo rimasti in zona ed è a voi che rivolgo questa nota.

Me ne andavo senza guida e con una mappa da due pesos per le incerte strade della Bolivia. Avevo, come tutti, il mio fardello di pensieri. Il mio rovello. Il tarlo che non cessa mai di scavarti il cervello. Quello se ne sta sempre lì e non demorde. Cito un mio caro amico “il samsara è una casa in fiamme”. È stato lo sguardo di un cane a tirarmi fuori dall’apnea e a riportarmi con i buchi di naso al pelo dell’acqua. Non ve la sto a far troppo lunga. Io personalmente sono arrivato a questa conclusione: c’è un possibile maestro in ogni essere senziente.

Accolgo il suggerimento del cane e mi metto sulla strada per la Higuera. Un luogo sperduto sulle montagne della zona sudorientale della Bolivia. Si è proprio quel posto lì dove ammazzarono il Che.

Giunto che fui mi registrai come dozzinante nella pensioncina de Los amigos, un posto raccomandabile zipillo di poesia e guevarismo. I proprietari, Christian e Nanù, sono una coppia di francesi randagi che hanno trovato qui il loro sehnsucht. Mi informano che non sono l’unico pensionate. Mi dicono qualcosa a proposito di un australiano e un argentino che viaggiano insieme e stanno facendo un documentario. Bah! Sono stanco.

Mi tiro a la cama  svengo u paio d’ore. Già è l’imbrunire e verso le 8 sento bussare piano alla porta di camera: La voce sottile, roca e graffiata di Nanù mi avvisa: Andrea! Ha llegado la gente? Ve lo immaginate? In un paesino di 40 anime? La gente è arrivata! Epifanie.
Agustín Lagos e Richard Sturdy, al secolo Ricardito Robusto. Piacere: Gespo.

Ecco qui comincia l’altro viaggio. Un documentarista argentino, uno scrittore australiano e un cantastorie italiano. Un bell’incipit per una barzelletta no?. È un mese di marcia serrata per una Bolivia che si rivela con volti e tratti incredibili. Il quarto compagno di viaggio è la telecamera che si accende a registrare le immagini che da ogni parte ci investono e ci trascinano via. Agustìn ha una idea ben precisa. La Bolivia è il primo capitolo di un documentario a più ampio respiro che riguarderà tutta l’America Latina. 

Saranno le immagini le vere protagoniste, poco dialogo, niente copione. Sembra di seguire l’avverarsi dell’intuizione simoniana dell’homovidens però con una accezione positiva e affascinante. Mi spiego meglio. Il bagaglio di informazioni che possediamo per cultura o per censo ci permette di tradurre in sensazioni e percezioni le immagini che scorrono nel primo capitolo di Latinoamèrica te amo

È già molto quello che sappiamo dell’umana specie che risulterebbe pleonastico aggiungere didascalie e sceneggiature ai quattro corti di Bolivia te amo
Paraisos de altura. Uno spaccato di paesaggi immensi improvvisamente interrotti dal roboante esplodere del Carnaval de Oruro, con i suoi demoni (diabladas) e le sue danze tipiche. 
Julio y la coca. La hoja sagrada. Quanto sappiamo della coca? Al solo pronunciarla s’avvia un turbinio di idee che vanno dal trasgressione pecoreccia, all’eccesso, allo yuppismo rivoltante fino al sincretismo religioso, al ritualità ancestrale all’atto devozionale. Eppure in tutto questo andirivieni di pensieri non ce ne uno rivolto a loro, ai lavoratori delle piantagioni di coca. Questo capitolo ci porta esattamente lì sulle tracce di Julio. Anche lui lavoratore che si alza la mattina, fa colazione, ascolta la radio, afferra gli arnesi del mestiere e s’avvia a lavoro. Incontra i compagni (colleghi?), scambia due chiacchere all’ombra di un tetto di paglia e poi s’avvia per le prode coltivate a erythroxylum coca.
Little Richard en la paz è un capitolo divertente in cui un australiano di 2 metri s’incontra con una città fuori misura. Una città immensa, caotica, frenetica, un cono con la punta rivolta verso il basso che d’impatto di ricorda le sezioni dell’inferno di Dante del manuale delle superiori. E per assurdo questa città si chiama La Paz. La pace? E dove si trova qui la pace? Ricardito lo scopre.
La higuera del che. I buitres volano bassi quando don Poli si china a togliere le erbacce dalle prode di patate e mais della sua finca. Si siede su uno sgabello di legno, tocca due note di un charango, è una canzone che ha composto per il Che. Non sapeva molto di rivoluzione quando era giovane. Solo aveva sentito correre la voce che per quei boschi si nascondevano dei guerriglieri comandati da un uomo che metteva paura. E quando il Che se lo incontrò faccia a faccia il giovane don Poli paura ebbe, ma lo stesso diede cibo e rifornimenti a quei capelloni scamiciati. Don Poli, il popolo per il quale le rivoluzioni in teoria combattono. Le sue parole sono stalagmiti che arrivano dritte al centro del cuore. E spenta la telecamera ci racconta che suo figlio vive nella gigante Europa e lo invita a raggiungerlo. O che la rossa cuba gli offre casa e pensione nell’isola e che lui rifiuta l’una e l’altra offerta perché la sua vita e lì, nel suo campo, con i suoi animali, con la sua gente in quell’Higuera di 40 anime. Proprio lì dove, quarantacinque anni fa in una scuolina nel centro del paese, un militare vigliacco, ebbe soddisfazione nell’ammazzare degli uomini legati mani e piedi. Uno dei quali era Ernesto Guevara de la Serna. Don Poli ne fu testimone suo malgrado. Costretto poi a spostare quei corpi perché un elicottero se li portasse via. E che….
Mi fermo qui ma vi lancio l’invito. 

E vi lascio un paio di agganci
http://latinoamericateamo.blogspot.com
http://www.youtube.com/watch?v=eszxfGPqaOw

martedì 24 aprile 2012

Iniziato

Autore: Margherita Micali

Rivolgendosi ad un bambino che ha appena preso in prestito un libro

M: Ma come, sei già alla fine?

Y: No. Son già all’inizio.

D’accordo, c’è la curiosità, la fascinazione delle immagini, dei colori, di qualche rima. C’è lo stimolo suscitato ed eccitato dagli animatori alla lettura. Allora il prestito di un libro può diventare a volte una pratica emozionante, un po’ come comprarsi un cd dopo un concerto.

Un momento affine a una trafila tipica dell’adulto e di cui si può compiacersi: mettetevi in fila davanti al bancone del prestito, consegnate la tessera, dichiarate i vostri dati, prendete in responsabile consegna il tomo in questione. Poi, dopo quel momento, tutti gli impulsi tornano a sparpagliarsi in un ampio ventaglio di possibilità, di effetti molteplici tipici della fase successiva:chi il libro lo leggerà e lo amerà e lo rileggerà, chi lo userà per paralume, chi lo confonderà tra i calzini, chi lo sbatterà in fronte al fratello, non senza presumerne la validità educativa. Ma raramente, nel momento della scelta e della prima esplorazione, si trova la lucidità così energica e disarmante di Y, una consapevolezza che scompiglia gli afflati mistici del clima post-animazione, strattona le liane dell’incanto trasognato verso il baratro – non privo di fascino- della realtà. Emergono così, automatiche, spontanee considerazioni. Essere già alla fine di un libro può significare tante cose: una lettura spedita, più o meno ap

profondita e attenta, spesso connotata da una verve esibizionistica (io l’ho già finito = io sono un lettore saputo ed esperto. E ve lo ripeto fino allo sfinimento anche se non è vero). Ma ammettere di essere “già all’inizio” è qualcosa di più, qualcosa che valica i confini del senso tangibile, che in poche parole dice tutto: dice che la lettura è sforzo, è impresa; dice che a volte è diffidenza e che le pagine devono praticare l’arte della seduzione; dice che lasciarsi andare è fatica e che abbandonarsi è fiducia; una fiducia che un libro deve sapersi, a volte, guadagnare. Dichiarare di essere “già all’inizio” è un atto puro, un’adesione confidenziale che rinuncia allo scetticismo riconoscendo e sconfiggendo la potenza del dubbio.

Questo è il regno delle emozioni e delle sensazioni che precede l’inizio della lettura: la terra brulicante e semi-inesplorata del “prima”, dove il “già” rappresenta l’incipit maturo di un percorso iniziatico. Solo dopo che siamo “già” all’inizio si è pronti ed attrezzati per il viaggio. E ci si può sorprendere, sul cammino, ad essere gustosamente “ancora alla fine”.

venerdì 20 aprile 2012

Storie di aghi di pino. O: piccoli laboratori da fare in casa

Autore: Andrea Gasparri

Successe che me ne stavo ben rilassato in un pomeriggio pasquale in quel sonnacchioso stato post prandiale, oziando e leggiucchiando il giornale quando, puntuale come la fame, arriva la vocina perentoria dei miei tre nipoti "zio, zio, che facciamo?" Uu uch che colpo basso. Bon. La risposta sarebbe salita spontanea alla bocca: "Andate un pó a ruzzare da soli col pallone". E invece, con la stanchezza di Anchise, mi son alzato e ho cominciato a guardarmi intorno.

Siamo in un giardinetto invaso dai pini. Intorno, solo aghi di pino, qualche altra pianta della macchia mediterranea, sassi, stecchi, fiorellini spontanei, cortecce.

Vado in cucina, prendo dei piatti di plastica e imbastisco una caccia al tesoro per i due più grandi, mentre alla piccola di 2 anni propongo foglio e pennarelli.

Cominciamo. “Chi mi porta per primo sei aghi di pino secchi!”. Corsa, ricerca, domande, speculazione, confronto e aghi nel piatto. “Chi mi porta prima un sasso tondo”. Stesso processo. Domande: “Questo è tondo?”. “Questo è ovale?”. I due hanno

rispettivamente 6 e 4 anni. Si contaminano a vicenda. Sicuramente quello di 6 ha maggior proprietà di linguaggio, fa la prima e ha nozioni di geometria. La piccola di due anni disegna e osserva.

“Chi mi porta prima un fiorellino giallo!”. Quello di 4 è più scattante e rapido. Arriva il fiore e allora alziamo

la difficoltà: “Chi mi porta sei foglie secche di pitosforo!”. Eh eh. C’è da chiedersi quale sia la pianta di pi… pifosoforo? “Zio è questo il pisosforo?” Son

tutti tentavi di nominare, rinominare, anche spregiare, per arrivare, a passi sciolti, a intercettare la realtà.

Ed è così che anche le sei foglie secche di pitosforo finiscono nel piatto. La piccola di due anni tappa un pennarello e osserva.

Adesso i piatti sono pieni. Ci sediamo al tavolo. Un foglio di carta bianco è lo scenario dove si svolgerà la seconda parte del gioco. “Allora signori, vi chiedo di creare un personaggio con le cose che avete trovato e messo nei vostri piatti.

Non si useranno né colle, né forbici, né tanto meno colori”.

“Zio, zio ma cosa vuol dire che dobbiamo fare un personaggio?”

“Già ragazzi, cosa vuol dire fare un personaggio? Secondo voi come si può fare?”.


“Forse che si possono mettere gli aghi per fare i capelli?”

“Mmmm sì perché no? Dai, proviamo!

Allora su quei fogli scialbati si spalmano attenzione e concentrazione e le mani piccole, abili e delicate si mettono al lavoro. I sassi vengono presi, soppesati, messi sul piano; poi spostati, accomodati, girati, osservati…

Gli aghi di pino sono rette incommensurabili interrotte da nulla, escono dai bordi dell’A4 e si fanno gambe, braccia, capelli, contorno.

Le scaglie delle pigne sono occhi, denti, orecchie, o non necessariamente qualcosa. L’aria è intrisa di pensieri, riflessioni, dubbi annodati e dubbi sciolti, fischi di merli, timidi grilli dei primi caldi.

Mentre la piccola di due anni armeggia e osserva.


“Zio io ho finito”. Ma è così tanto per dire, già che “adesso faccio il naso”. Dall’annuncio alla realtà ci son ancora una manciata di minuti. Tempi essenziali.

Ecco, adesso si possono battezzare i nostri personaggi. Onomaturgia in azione: Sambisumo, Moremo…


La piccola osserva e interviene “Il mio si chiama Sambisuro”. Meraviglia. L’inatteso mi stordisce sempre un po’. Piacevolmente. Il disegno che la piccola stava facendo ha

lasciato il posto a una composizione di pennarelli ordinati con una cura e attenzione.È il suo personaggio, con il quale rivendica il diritto di partecipare all’attività dei fratelli più grandi. Occhio alle disparità.

“Facciamo due foto?”

Ecco fatto. Però voglio proporre un passo ulteriore per il gioco inventato lì su due piedi, prima di tornare alla mia gislonga.

“Facciamo che adesso i nostri personaggi ritornano a far parte del mondo da cui sono venuti? Proviamo a rimettere le cose dove le abbiamo incontrate!”.

Seconda magia. Gli aghi ritornano sotto il pino. I sassi nel vialetto. Il fiore giallo nel vaso. I pennarelli nell’astuccio, etc etc.

Davvero un’ora e venti puó durare tanto poco?

Poi però la gislonga non me l’hanno concessa, ed anzi è partita una sfida ai rigori con il pallone di cuoio.


mercoledì 28 marzo 2012

Ana Maria Bovo


Ana Maria Bovo

Quando nel 2008 sono venuto per la prima volta, faccia allegra da italiano in gita, a pestare le pietre delle strade di buenos aires mi si fece assistere a uno spettacolo scritto e diretto da Anna Maria Bovo di cui pur sforzandomi non ricordo il titolo. Ad ogni modo lo spettacolo mi colpì molto perché mi fece rendere conto di quanto il mio spagnolo fosse lacunoso e carente, tanto da non farmi capire pressochè nulla dell'opera. La considerai un'esperienza iniziatica e decisi di continuare a seguire, una volta tornato in Italia, le notizie riguardo a quest'autrice di cui si dicevano grandi cose. Narratrice per censo. Scrittrice per necessità, si dichiara amante dell'oralità e dell'estemporaneo. Curiosa osservatrice del mondo anni fa ha deciso di aprire una scuola per divulgare, diciamo così, le intrasmissibili tecniche della narrazione. Ecco mi sembra che per un elzeviro possa essere sufficiente. Ora sciolgo la briglia e vi racconto la mia Ana Maria Bovo: maestra, sorriso, parola, silenzio. Uno dei primi crostoni da fessurata quando si emigra è l'adattamento. Ognuno di noi, secondo la propria anímica inclinazione, sceglierà l'ambiente tematico più affine. Io, narratore per elezione, sono andato a scovare la Bovo che da tempo riecheggiava nelle mie orecchie (anche se con accenti oscuri). Www eccetera ecco la pagina del Curso de Pensamiento Narrativo. Inizia a metà aprile. Manca meno di una settimana. Il caso non esiste. Pago la quota e mi presento alla prima lezione introduttiva in cui Ana introdurrà il gruppo di docenti e darà il via alle danze. Uno stanzone afoso dell'ultimo piano di una scuola in Guatemala y Thames. Pieno Palermo viejo. Siamo tanti. Più di 50. Penso fra me e me "sto assistendo all'esprimersi di uno dei caratteri più controversi dell'argentinità: il gusto, anzi no, la necessità di raccontarsi". E questo pensiero mi metteva in uno spudorato faccia a faccia con la mia fiorentinità sempre a caccia della pennellata che definisca il tratto, l'accento e In questo assai poretña, nel saperla sempre un pó più lunga degli altri. Ebbene accade che il rimuginare frenetico di pensieri, il mulinello ellittico di atrocità mentali (ancora non lo sapevo) è l'iperuranio il brodo primordiale su cui lavora Ana Il suo stile, la sua scuola arrivano a far luce in quelle pieghe della memoria dove, pare impossibile, è nascosta la bellezza di ogni individuo. Ecco quindi che nell'arco dei primi 4 mesi del corso riaffiorano personaggi, luoghi sensazioni, miraggi, accenti, sapori, colori e suoni stratificati nella vita di ognuno e tirati lì in un angolino come scartoffie a cui non si è dato molta importanza. È un rugginoso e cigolante baule che si riapre facendo apparire l'inatteso, il meraviglioso. E Ana e i suoi assistenti, come in una focina alchemica di apprendisti stregoni, aiutano a tirar fuori a scegliere quello che puó servire e quello che è meglio lasciare per preparare la pozione magica del racconto. M. Vi ho convinti? No? Aspettate adesso vi racconto cosa mi è succecceso in questi mesi. Certo anche io sono stato travolto dal mare magnum delle sensazioni, dei ricordi. Mi son sentito così tano nel raccontare, perchè a tratti mi mancava la parola, il lessico, la frase idiomatica che solo l'infanzia vissuta in un luogo ti consegna. Peró l'esperienza più grande per me è stato l'ascolto. Le storie di un'Europa in fuga dalle atrocità della guerra, della povertà, della violenza, del saccheggio. Ascoltate dai testimoni in seconda battuta. Figli di quegli italiani, spagnoli, tedeschi, francesi, ma anche russi, slavi tutti insomma. Spinti dalla vita e dalla voglia di vivere, migliaia di miglia altrove. Abbandonando. Eccole lì quelle facce, quei volti, quelle espressioni spesso immaginati nelle lettere, nei racconti, nei romanzi del novecento. Eccolo lì quella brulicare di genti che, valigia di cartone alla mano, saliva il pontile di transatlantici dai nomi patriottici. Eccolo li il neorealismo. Ana ti ci accompagna dentro e che tu lo voglia o no ne fai parte e lo senti.
Narratrice per censo, dicevo, speculatrice dell'intenso. C'è anche del teatro nella sua tecnica ma non troppo. C'è della musica, ma quanto basta a scatenare il ruggito del ricordo unico vero metro, il solo scomposto primo passo che con educata dolcezza Ana ti porta a trasformare in armonica danza di pura oralità.

Alcuni referimenti:

http://www.anamariabovo.com.ar/

Gespo