“Leía tanto que algún médico llegó a recomendarle
leer menos durante cinco o seis meses y salir más a tomar un poco de sol[1]”
Oggi dodici febbraio passo
svogliato in rassegna gli aggiornamenti dei social network, delle pagine dei
giornali on line, dei sogni rattoppati in cassetti zeppi di quaderni scritti
per la metá. M’imbatto ripetutamente nella mirada stroboscopica di Julio
Cortazár e non l’ascolto, faccio un po’ finta di niente fino a quando, certa
come il gorgoglio della caffettiera, m’arriva in faccia la data 12-02. Cortazar
moriva d’un malaccio una ventinovina di anni fa. L’84 è già una data che fa
parte dei miei ricordi. Avevo undici anni e frequentavo quel ricettacolo di
persone dismetriche e amplificate che sono Lescuolemedie.
In prima media prendevo tanti cazzotti dai ripetenti… Perché ero quattrocchi.
Perché non capivo come funzionavano le cose. Perché m’incantavo sulle
sciocchezze. Perché non sapevo giocare nell’ordine a baseball, a calcio, a
basket, a palla a mano. Insomma in breve a nessuno sport che considerasse tra
le sue regole fondamentali il gioco di squadra e l’uso di una palla. Non so se
cronopios o famas, di certo no esperaza ero io. Ma c’erano buone probabilità
già fin da quel lontano ’84 che avrei incontrato un giorno l’opera di Cortázar.
C’era scritto su quel muro
della Iª E: “ Chi legge è il Gasparri”.
Perché quando tiri il
sassino per giocare al gioco de mondo, (per noi campana), la Rayuela arranca e
non puoi far altro che saltare, ora con un piede ora con due, per arrivare al
Cielo e ridiscendere in Terra.
E quindi è stato uno
strano modo di incontrarsi e innamorarsi. Le medie me le sono lasciate alle
calcagna con tutto il loro carico di inutilità. Svanite nel nulla come il
ciclostile, la riga a T, gli stantii collage del professore di disegno, i
patetici saggi di piffero del prof di musica.
Dicevo l’incontro con
Cortàzar è stato di quelli da innamoramento. Mi è capitato solo con rare donne
e pochi scrittori. Con Ivan Illich mi successe più o meno lo stesso. La descolarizzazione della società mi
cadde praticamente in mano da uno scaffale di una bibliotechina dimenticata da
Dio, nell’ora inesistente quartiere 2 di Firenze. Anche per Cortazàr vale il
luogo scomparso. Giravo per i sentieri della libreria Edison dalle parti di
piazza della Repubblica. Ad un tratto l’occhiolino che mi fecero le stampe
della cornice della copertina di Il giro
del giorno in ottanta mondi nell’edizione ALET, m’arrestarono il passo
strascicato. Presi in mano il volume, bello liscio. Le tonalità di grigio
melangiato non mi lasciarono indifferente. La quarta di copertina un uppercut.
C’è una foto. Ci volle qualche secondo perché l’occhio la mettesse a fuoco. È
un fotomontaggio. Ve ne riporto la didascalia: Julio Cortàzar (in piedi a
destra) e Julio Da Silva (in basso a sinistra) in un fotomontaggio che li
ritrae con Toro Seduto, Buffalo Bill, Jhonny Baker e Crew Eagle[…]
Aprii velocemente il libro
e mi congedai dalla realtà. Caddi inebriato nelle asparizioni gentili di
immagini e parole. Rapito fermai il fruscio emiciclico delle pagine verso
l’inizio del libro (ebbene si, non so voi ma io i libri li apro al
contrario)…Lascai all’occhio fare la sua parte nel gioco della lettura
azzardata. Sorse il samadhi a partire dal capoverso che mi traghettava verso
l’immensità di queste poche righe: L’uomo
dei nostri tempi, crede con facilità che la sua informazione filosofica e
storica lo salvi dal realismo ingenuo. Durante conferenze universitarie e
chiacchere da bar arriva ad ammettere che la realtà non è quella che sembra, ed
è sempre pronto a riconoscere che i suoi sensi lo ingannano e la sua
intelligenza gli produce una visione tollerabile ma incompleta del mondo. Ogni
volta che pensa metafisicamente si sente più “triste e più saggio”. Ma la sua
ammissione è momentanea ed eccezionale, mentre il continuum della vita lo
colloca in pieno nell’apparenza, la concretizza intorno a lui, la riveste di
definizioni, funzioni e valori. Quest’uomo è un ingenuo realista più che un
realista ingenuo. Basta osservare il suo comportamento di fronte a tutto ciò
che è eccezionale, insolito; o lo riduce a un fenomeno estetico o poetico[2].
Partorito da Cortazár mi
diressi alla cassa. Pagai uscii. Era il 2006. I sei mesi in Repubblica
Dominicana avevano avuto come effetto collaterale l’accendersi in me di una
particolare sensibilità per l’argentinità. Cortázar diventó una specie di
chiodo fisso. Di smania letteraria. Dovevo avere la sua opera e leggerla,
possibilmente in lingua originale. La mia compagna di allora si presentó, di
ritorno da un viaggio per il Sud America, con una copia di Rayuela in una
stortignaccola edizione acquistata in una libreria de la Calle Corrientes.
Scoprii una bocca, l’inesistenza del caso, la magia sottile che non si narra,
le viuzze di una Parigi assorbita per osmosi (dato che ci sono stato solo mezza
volta ed in totale stato di ubriachezza). Scoprii il gioco involontario dei
salti di pagina, quello volontario del gliglico, quello involontario del vizio,
quello volontario dell’amore. E Cortázar diventò il mio scrittore preferito.
Boom, così d’un botto. Nel 2008 è il mio turno tra las calles de Buenos Aires.
Arrivai ai tre volumi tascabili bianchi
e celesti dell’edizione Punto de Lectura. Il primi due vennero ben presto
sfiancati nella brossura. Il terzo comincia a lamentare troppi orecchi. Ed è un
continuo riprendere in mano racconti, novelle e giochi. Ha ragione Vargas Llosa
che dice: En los libros de Cortázar juega el autor, juega el narrador, juegan
los personajes y juega el lector, obligados a ellos por las endiabladas trampas
que los acechan a la vuelta a la página menos pensada[3]
Arrivarono quindi anche
gli scherzi, Fantomas contro i vampiri
delle multinazionali[4].
Forse uno dei primi tentativi di graphic novel. Con dei supereroi… Ma dei
supereroi… Susan Sontag, Alberto Moravia, Octavio Paz e naturalmente Cortazár.
Eccolo lì intriso nella sua invenzione, nella sua mirada di sbieco, metterci a
parte dell’esperienza maturata nel Tribunale Russell[5],
nel ’75. S’inventa una setta fascista che vuole eliminare tutti i libri dalla
faccia della terra. Ma l’eroe criminale mascherato Fantomas questa volta ha
bisogno dell’aiuto degli intellettuali e li fa chiamare dalla sua assistente,
una specie di Cleopatra Jones in tuta attillata verde.
E poi da quella lettura
sono passati gli anni della migranza. Me ne sono andato a vivere a Buenos Aires
per due anni. Facevo il bibliotecario in una piccola biblioteca scolastica. Il
mio regno Borgesiano, custodito e protetto dallo sguardo seriamente miope di
Juan Luis che spuntava dalle finistrelle di un kamishibai esposto sul mobile
alle mie spalle. Un vezzo, un altarino votivo al lare dell’archivistica, allo
scrittore dei mille mondi che si nascondono e si svelano a un passo dalla nostra
sensibilità, ottusa dalle cose del mondo. Però nei cubi montessoriani delle
librerie ad altezza di quattrenne, proprio alla lettera C stampata in un rosso
marcato, c’è la costola che dice El
discurso del oso. Tratta da Historias
de cronopios y de famas. Un bel cartonato, rilegato e illustrato da Emilio
Urberuaga. I bambini ne vanno matti… ma io più di loro. E talvolta, posate le
carte e gli arnesi del meticoloso catalogatore, chiudo la porta che s’apre ai
vociferanti corridoi, mi seggo tranquillo al riverbero della vetrata che dà sul
cortile e accarezzo le belle e colorate pagine della storia, leggendola a voce
alta.
Buenos Aires querido, se
ne incontrano tanti di amori imboscati in pagine giallognole di libri di
seconda mano, in edizioni arrangiate e malcerte, in testi buttati alla mercé
della curiosità di lettori irriducibili. Ed è così ad esempio che ho incontrato
Roberto Arlt, tra le vie del barrio de Flores. Il suo modo di scrivere tanto
lunfardo da sembrare una sorta di italiano sbiascicato. Volete un esempio? Che
credete voglia dire “Manga de pelandrones”?.
Però poi si dovette riprender la via
dell’orto. Tornare a casa un po’ a orecchie basse, un po’ più sensibile a fior
di pelle. Ed ecco che arriva come una folata di vento fresco in un giorno di calura
un’amica di sempre che mi fa dono di un libro che ha come immagine di copertina
uno di quei sogni rattoppati di cui sopra: un furgoncino della volkswagen con
le ali. Campeggia un titolo in rosso… Gli
autonauti della cosmostrada[6].
Poco sopra, due nomi: Julio Cortázar, Carol Dunlop. Ed ecco che ricomincia il
viaggio. Quel viaggio che per fortuna o purtroppo non avrà mai fine perché fa
parte della mia angustia di uomo smanioso.
Perse oramai le certezze, abbandonata
l’esattezza della funzione, della definizione dei “valori” la poesia si è fatta
più resistente e incisiva perché nasce dalla fanghiglia primordiale delle cose.
L’estetica non mi colpisce più se fine a se stessa, se priva di un atto
d’amore, se ingenua e mera rappresentazione dell’ego. E allora alzo la coppa a
Julio Cortazár. Argentino per censo e scrittore per volere divino. Uomo di
lettere e di grandi passioni. Mi sa che stasera mi fumerò una sigaretta alla
sua memoria.
[1] http://es.wikipedia.org/wiki/Julio_Cortázar
[2] J. Cotazár, Il giro del giorno
in ottanta mondi, Alet, 2006 pag. 34
[3] Nei libri di Cortázar gioca
l’autore, gioca il narratore, giocano i personaggi e gioca il lettore, obbligati
a questo dalla trappola diabólica che attende al girare ognuna di queste pagine
inimmaginabili (nda.)
[4] J. Cortázar, Fantomas contro i deliri delle
multnazionali, Derivi e Approdi, 2006
[5] Tribunale
internazionale contro i crimini di guerra,
[6] J. Cortázar e C. Dunlop, Gli autonauti della cosmostrada. Overo un viaggio atemporale Parigi
Marsiglia, Einaudi, 2012.
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