GrimMagia

Autore: Margherita Micali
Rivolgendosi ad un bambino che ha appena preso in prestito un libro
M: Ma come, sei già alla fine?
Y: No. Son già all’inizio.
D’accordo, c’è la curiosità, la fascinazione delle immagini, dei colori, di qualche rima. C’è lo stimolo suscitato ed eccitato dagli animatori alla lettura. Allora il prestito di un libro può diventare a volte una pratica emozionante, un po’ come comprarsi un cd dopo un concerto.
profondita e attenta, spesso connotata da una verve esibizionistica (io l’ho già finito = io sono un lettore saputo ed esperto. E ve lo ripeto fino allo sfinimento anche se non è vero). Ma ammettere di essere “già all’inizio” è qualcosa di più, qualcosa che valica i confini del senso tangibile, che in poche parole dice tutto: dice che la lettura è sforzo, è impresa; dice che a volte è diffidenza e che le pagine devono praticare l’arte della seduzione; dice che lasciarsi andare è fatica e che abbandonarsi è fiducia; una fiducia che un libro deve sapersi, a volte, guadagnare. Dichiarare di essere “già all’inizio” è un atto puro, un’adesione confidenziale che rinuncia allo scetticismo riconoscendo e sconfiggendo la potenza del dubbio.
Questo è il regno delle emozioni e delle sensazioni che precede l’inizio della lettura: la terra brulicante e semi-inesplorata del “prima”, dove il “già” rappresenta l’incipit maturo di un percorso iniziatico. Solo dopo che siamo “già” all’inizio si è pronti ed attrezzati per il viaggio. E ci si può sorprendere, sul cammino, ad essere gustosamente “ancora alla fine”.
Autore: Andrea Gasparri
Successe che me ne stavo ben rilassato in un pomeriggio pasquale in quel sonnacchioso stato post prandiale, oziando e leggiucchiando il giornale quando, puntuale come la fame, arriva la vocina perentoria dei miei tre nipoti "zio, zio, che facciamo?" Uu uch che colpo basso. Bon. La risposta sarebbe salita spontanea alla bocca: "Andate un pó a ruzzare da soli col pallone". E invece, con la stanchezza di Anchise, mi son alzato e ho cominciato a guardarmi intorno.
Siamo in un giardinetto invaso dai pini. Intorno, solo aghi di pino, qualche altra pianta della macchia mediterranea, sassi, stecchi, fiorellini spontanei, cortecce.
Vado in cucina, prendo dei piatti di plastica e imbastisco una caccia al tesoro per i due più grandi, mentre alla piccola di 2 anni propongo foglio e pennarelli.
Cominciamo. “Chi mi porta per primo sei aghi di pino secchi!”. Corsa, ricerca, domande, speculazione, confronto e aghi nel piatto. “Chi mi porta prima un sasso tondo”. Stesso processo. Domande: “Questo è tondo?”. “Questo è ovale?”. I due hanno
rispettivamente 6 e 4 anni. Si contaminano a vicenda. Sicuramente quello di 6 ha maggior proprietà di linguaggio, fa la prima e ha nozioni di geometria. La piccola di due anni disegna e osserva.
“Chi mi porta prima un fiorellino giallo!”. Quello di 4 è più scattante e rapido. Arriva il fiore e allora alziamo
la difficoltà: “Chi mi porta sei foglie secche di pitosforo!”. Eh eh. C’è da chiedersi quale sia la pianta di pi… pifosoforo? “Zio è questo il pisosforo?” Son
tutti tentavi di nominare, rinominare, anche spregiare, per arrivare, a passi sciolti, a intercettare la realtà.
Ed è così che anche le sei foglie secche di pitosforo finiscono nel piatto. La piccola di due anni tappa un pennarello e osserva.
Adesso i piatti sono pieni. Ci sediamo al tavolo. Un foglio di carta bianco è lo scenario dove si svolgerà la seconda parte del gioco. “Allora signori, vi chiedo di creare un personaggio con le cose che avete trovato e messo nei vostri piatti.
Non si useranno né colle, né forbici, né tanto meno colori”.
“Zio, zio ma cosa vuol dire che dobbiamo fare un personaggio?”
“Già ragazzi, cosa vuol dire fare un personaggio? Secondo voi come si può fare?”.
“Forse che si possono mettere gli aghi per fare i capelli?”
“Mmmm sì perché no? Dai, proviamo!
Allora su quei fogli scialbati si spalmano attenzione e concentrazione e le mani piccole, abili e delicate si mettono al lavoro. I sassi vengono presi, soppesati, messi sul piano; poi spostati, accomodati, girati, osservati…
Gli aghi di pino sono rette incommensurabili interrotte da nulla, escono dai bordi dell’A4 e si fanno gambe, braccia, capelli, contorno.
Le scaglie delle pigne sono occhi, denti, orecchie, o non necessariamente qualcosa. L’aria è intrisa di pensieri, riflessioni, dubbi annodati e dubbi sciolti, fischi di merli, timidi grilli dei primi caldi.
Mentre la piccola di due anni armeggia e osserva.
“Zio io ho finito”. Ma è così tanto per dire, già che “adesso faccio il naso”. Dall’annuncio alla realtà ci son ancora una manciata di minuti. Tempi essenziali.
Ecco, adesso si possono battezzare i nostri personaggi. Onomaturgia in azione: Sambisumo, Moremo…
La piccola osserva e interviene “Il mio si chiama Sambisuro”. Meraviglia. L’inatteso mi stordisce sempre un po’. Piacevolmente. Il disegno che la piccola stava facendo ha
lasciato il posto a una composizione di pennarelli ordinati con una cura e attenzione.È il suo personaggio, con il quale rivendica il diritto di partecipare all’attività dei fratelli più grandi. Occhio alle disparità.
“Facciamo due foto?”
Ecco fatto. Però voglio proporre un passo ulteriore per il gioco inventato lì su due piedi, prima di tornare alla mia gislonga.
“Facciamo che adesso i nostri personaggi ritornano a far parte del mondo da cui sono venuti? Proviamo a rimettere le cose dove le abbiamo incontrate!”.
Seconda magia. Gli aghi ritornano sotto il pino. I sassi nel vialetto. Il fiore giallo nel vaso. I pennarelli nell’astuccio, etc etc.
Davvero un’ora e venti puó durare tanto poco?
Poi però la gislonga non me l’hanno concessa, ed anzi è partita una sfida ai rigori con il pallone di cuoio.