venerdì 28 dicembre 2012
GrimMagia
lunedì 25 giugno 2012
Latinomérica te amo
martedì 24 aprile 2012
Iniziato
Autore: Margherita Micali
Rivolgendosi ad un bambino che ha appena preso in prestito un libro
M: Ma come, sei già alla fine?
Y: No. Son già all’inizio.
D’accordo, c’è la curiosità, la fascinazione delle immagini, dei colori, di qualche rima. C’è lo stimolo suscitato ed eccitato dagli animatori alla lettura. Allora il prestito di un libro può diventare a volte una pratica emozionante, un po’ come comprarsi un cd dopo un concerto.
Un momento affine a una trafila tipica dell’adulto e di cui si può compiacersi: mettetevi in fila davanti al bancone del prestito, consegnate la tessera, dichiarate i vostri dati, prendete in responsabile consegna il tomo in questione. Poi, dopo quel momento, tutti gli impulsi tornano a sparpagliarsi in un ampio ventaglio di possibilità, di effetti molteplici tipici della fase successiva:chi il libro lo leggerà e lo amerà e lo rileggerà, chi lo userà per paralume, chi lo confonderà tra i calzini, chi lo sbatterà in fronte al fratello, non senza presumerne la validità educativa. Ma raramente, nel momento della scelta e della prima esplorazione, si trova la lucidità così energica e disarmante di Y, una consapevolezza che scompiglia gli afflati mistici del clima post-animazione, strattona le liane dell’incanto trasognato verso il baratro – non privo di fascino- della realtà. Emergono così, automatiche, spontanee considerazioni. Essere già alla fine di un libro può significare tante cose: una lettura spedita, più o meno approfondita e attenta, spesso connotata da una verve esibizionistica (io l’ho già finito = io sono un lettore saputo ed esperto. E ve lo ripeto fino allo sfinimento anche se non è vero). Ma ammettere di essere “già all’inizio” è qualcosa di più, qualcosa che valica i confini del senso tangibile, che in poche parole dice tutto: dice che la lettura è sforzo, è impresa; dice che a volte è diffidenza e che le pagine devono praticare l’arte della seduzione; dice che lasciarsi andare è fatica e che abbandonarsi è fiducia; una fiducia che un libro deve sapersi, a volte, guadagnare. Dichiarare di essere “già all’inizio” è un atto puro, un’adesione confidenziale che rinuncia allo scetticismo riconoscendo e sconfiggendo la potenza del dubbio.
Questo è il regno delle emozioni e delle sensazioni che precede l’inizio della lettura: la terra brulicante e semi-inesplorata del “prima”, dove il “già” rappresenta l’incipit maturo di un percorso iniziatico. Solo dopo che siamo “già” all’inizio si è pronti ed attrezzati per il viaggio. E ci si può sorprendere, sul cammino, ad essere gustosamente “ancora alla fine”.
venerdì 20 aprile 2012
Storie di aghi di pino. O: piccoli laboratori da fare in casa
Autore: Andrea Gasparri
Successe che me ne stavo ben rilassato in un pomeriggio pasquale in quel sonnacchioso stato post prandiale, oziando e leggiucchiando il giornale quando, puntuale come la fame, arriva la vocina perentoria dei miei tre nipoti "zio, zio, che facciamo?" Uu uch che colpo basso. Bon. La risposta sarebbe salita spontanea alla bocca: "Andate un pó a ruzzare da soli col pallone". E invece, con la stanchezza di Anchise, mi son alzato e ho cominciato a guardarmi intorno.
Siamo in un giardinetto invaso dai pini. Intorno, solo aghi di pino, qualche altra pianta della macchia mediterranea, sassi, stecchi, fiorellini spontanei, cortecce.
Vado in cucina, prendo dei piatti di plastica e imbastisco una caccia al tesoro per i due più grandi, mentre alla piccola di 2 anni propongo foglio e pennarelli.
Cominciamo. “Chi mi porta per primo sei aghi di pino secchi!”. Corsa, ricerca, domande, speculazione, confronto e aghi nel piatto. “Chi mi porta prima un sasso tondo”. Stesso processo. Domande: “Questo è tondo?”. “Questo è ovale?”. I due hanno
rispettivamente 6 e 4 anni. Si contaminano a vicenda. Sicuramente quello di 6 ha maggior proprietà di linguaggio, fa la prima e ha nozioni di geometria. La piccola di due anni disegna e osserva.
“Chi mi porta prima un fiorellino giallo!”. Quello di 4 è più scattante e rapido. Arriva il fiore e allora alziamo
la difficoltà: “Chi mi porta sei foglie secche di pitosforo!”. Eh eh. C’è da chiedersi quale sia la pianta di pi… pifosoforo? “Zio è questo il pisosforo?” Son
tutti tentavi di nominare, rinominare, anche spregiare, per arrivare, a passi sciolti, a intercettare la realtà.
Ed è così che anche le sei foglie secche di pitosforo finiscono nel piatto. La piccola di due anni tappa un pennarello e osserva.
Adesso i piatti sono pieni. Ci sediamo al tavolo. Un foglio di carta bianco è lo scenario dove si svolgerà la seconda parte del gioco. “Allora signori, vi chiedo di creare un personaggio con le cose che avete trovato e messo nei vostri piatti.
Non si useranno né colle, né forbici, né tanto meno colori”.
“Zio, zio ma cosa vuol dire che dobbiamo fare un personaggio?”
“Già ragazzi, cosa vuol dire fare un personaggio? Secondo voi come si può fare?”.
“Forse che si possono mettere gli aghi per fare i capelli?”
“Mmmm sì perché no? Dai, proviamo!
Allora su quei fogli scialbati si spalmano attenzione e concentrazione e le mani piccole, abili e delicate si mettono al lavoro. I sassi vengono presi, soppesati, messi sul piano; poi spostati, accomodati, girati, osservati…
Gli aghi di pino sono rette incommensurabili interrotte da nulla, escono dai bordi dell’A4 e si fanno gambe, braccia, capelli, contorno.
Le scaglie delle pigne sono occhi, denti, orecchie, o non necessariamente qualcosa. L’aria è intrisa di pensieri, riflessioni, dubbi annodati e dubbi sciolti, fischi di merli, timidi grilli dei primi caldi.
Mentre la piccola di due anni armeggia e osserva.
“Zio io ho finito”. Ma è così tanto per dire, già che “adesso faccio il naso”. Dall’annuncio alla realtà ci son ancora una manciata di minuti. Tempi essenziali.
Ecco, adesso si possono battezzare i nostri personaggi. Onomaturgia in azione: Sambisumo, Moremo…
La piccola osserva e interviene “Il mio si chiama Sambisuro”. Meraviglia. L’inatteso mi stordisce sempre un po’. Piacevolmente. Il disegno che la piccola stava facendo ha
lasciato il posto a una composizione di pennarelli ordinati con una cura e attenzione.È il suo personaggio, con il quale rivendica il diritto di partecipare all’attività dei fratelli più grandi. Occhio alle disparità.
“Facciamo due foto?”
Ecco fatto. Però voglio proporre un passo ulteriore per il gioco inventato lì su due piedi, prima di tornare alla mia gislonga.
“Facciamo che adesso i nostri personaggi ritornano a far parte del mondo da cui sono venuti? Proviamo a rimettere le cose dove le abbiamo incontrate!”.
Seconda magia. Gli aghi ritornano sotto il pino. I sassi nel vialetto. Il fiore giallo nel vaso. I pennarelli nell’astuccio, etc etc.
Davvero un’ora e venti puó durare tanto poco?
Poi però la gislonga non me l’hanno concessa, ed anzi è partita una sfida ai rigori con il pallone di cuoio.
mercoledì 28 marzo 2012
Ana Maria Bovo
Ana Maria Bovo
Quando nel 2008 sono venuto per la prima volta, faccia allegra da italiano in gita, a pestare le pietre delle strade di buenos aires mi si fece assistere a uno spettacolo scritto e diretto da Anna Maria Bovo di cui pur sforzandomi non ricordo il titolo. Ad ogni modo lo spettacolo mi colpì molto perché mi fece rendere conto di quanto il mio spagnolo fosse lacunoso e carente, tanto da non farmi capire pressochè nulla dell'opera. La considerai un'esperienza iniziatica e decisi di continuare a seguire, una volta tornato in Italia, le notizie riguardo a quest'autrice di cui si dicevano grandi cose. Narratrice per censo. Scrittrice per necessità, si dichiara amante dell'oralità e dell'estemporaneo. Curiosa osservatrice del mondo anni fa ha deciso di aprire una scuola per divulgare, diciamo così, le intrasmissibili tecniche della narrazione. Ecco mi sembra che per un elzeviro possa essere sufficiente. Ora sciolgo la briglia e vi racconto la mia Ana Maria Bovo: maestra, sorriso, parola, silenzio. Uno dei primi crostoni da fessurata quando si emigra è l'adattamento. Ognuno di noi, secondo la propria anímica inclinazione, sceglierà l'ambiente tematico più affine. Io, narratore per elezione, sono andato a scovare la Bovo che da tempo riecheggiava nelle mie orecchie (anche se con accenti oscuri). Www eccetera ecco la pagina del Curso de Pensamiento Narrativo. Inizia a metà aprile. Manca meno di una settimana. Il caso non esiste. Pago la quota e mi presento alla prima lezione introduttiva in cui Ana introdurrà il gruppo di docenti e darà il via alle danze. Uno stanzone afoso dell'ultimo piano di una scuola in Guatemala y Thames. Pieno Palermo viejo. Siamo tanti. Più di 50. Penso fra me e me "sto assistendo all'esprimersi di uno dei caratteri più controversi dell'argentinità: il gusto, anzi no, la necessità di raccontarsi". E questo pensiero mi metteva in uno spudorato faccia a faccia con la mia fiorentinità sempre a caccia della pennellata che definisca il tratto, l'accento e In questo assai poretña, nel saperla sempre un pó più lunga degli altri. Ebbene accade che il rimuginare frenetico di pensieri, il mulinello ellittico di atrocità mentali (ancora non lo sapevo) è l'iperuranio il brodo primordiale su cui lavora Ana Il suo stile, la sua scuola arrivano a far luce in quelle pieghe della memoria dove, pare impossibile, è nascosta la bellezza di ogni individuo. Ecco quindi che nell'arco dei primi 4 mesi del corso riaffiorano personaggi, luoghi sensazioni, miraggi, accenti, sapori, colori e suoni stratificati nella vita di ognuno e tirati lì in un angolino come scartoffie a cui non si è dato molta importanza. È un rugginoso e cigolante baule che si riapre facendo apparire l'inatteso, il meraviglioso. E Ana e i suoi assistenti, come in una focina alchemica di apprendisti stregoni, aiutano a tirar fuori a scegliere quello che puó servire e quello che è meglio lasciare per preparare la pozione magica del racconto. M. Vi ho convinti? No? Aspettate adesso vi racconto cosa mi è succecceso in questi mesi. Certo anche io sono stato travolto dal mare magnum delle sensazioni, dei ricordi. Mi son sentito così tano nel raccontare, perchè a tratti mi mancava la parola, il lessico, la frase idiomatica che solo l'infanzia vissuta in un luogo ti consegna. Peró l'esperienza più grande per me è stato l'ascolto. Le storie di un'Europa in fuga dalle atrocità della guerra, della povertà, della violenza, del saccheggio. Ascoltate dai testimoni in seconda battuta. Figli di quegli italiani, spagnoli, tedeschi, francesi, ma anche russi, slavi tutti insomma. Spinti dalla vita e dalla voglia di vivere, migliaia di miglia altrove. Abbandonando. Eccole lì quelle facce, quei volti, quelle espressioni spesso immaginati nelle lettere, nei racconti, nei romanzi del novecento. Eccolo lì quella brulicare di genti che, valigia di cartone alla mano, saliva il pontile di transatlantici dai nomi patriottici. Eccolo li il neorealismo. Ana ti ci accompagna dentro e che tu lo voglia o no ne fai parte e lo senti.
Narratrice per censo, dicevo, speculatrice dell'intenso. C'è anche del teatro nella sua tecnica ma non troppo. C'è della musica, ma quanto basta a scatenare il ruggito del ricordo unico vero metro, il solo scomposto primo passo che con educata dolcezza Ana ti porta a trasformare in armonica danza di pura oralità.
Alcuni referimenti:
http://www.anamariabovo.com.ar/