I secondi incontri di un
percorso di tre sono dei veri e propri diamanti grezzi. Dopo aver sovraesposto
i pargoli ad un eccesso di rime li sguinzagliamo sul foglio bianco dove c’è
scritto solo il primo verso endecasillabo dato come abbrivio. Il resto è tutta
farina del loro sacco. E che farina… e che sacco… Vediamo se mi spiego.
Quando facevo l’operaio e
piegavo la gobba sotto il peso di massi che poi sistemavamo in ripidi muri a
secco, tornavo a casa con le mani screpolate, le gote rubizze per via del sole
e dello sforzo e con i muscoli della schiena indolenziti. Il mio compagno di
ventura, sentendomi lamentare diceva: “Non ti preoccupare, è il lavoro che
entra”. Stessa cosa mi succedeva quando da piccino decisi di imparare a suonare
la chitarra. I primi tempi avevo i polpastrelli in fiamme. Ecco anche nei percorsi
che facciamo nelle scuole con i ragazzi succede la stessa cosa. C’è un momento di dolore sottile in cui si
percepisce chiaramente che il lavoro sta entrando. È tutto un trottare di
meningi che in certi momenti si trasforma in un murmure dall’andirivieni di
risacca.
Oggi i nostri poeti in erba sono chiamati a comporre un’ottava. I vincoli sono pochi, ma
ferrei e precisi. Ultimo accento forte del verso sulla decima sillaba,
rispettare lo schema di una sestina in rima alternata e una rima baciata ABABABCC.
Ancora siamo nella fase di esercitazione, quindi il primo verso glielo diamo
noi
Ecco cosa hanno tirato fuori i poetini:
S’io fossi foco arderei il mondo
S’io fossi aria asciugherei i
panni
S’io fossi iPad cambierei
sfondo
S’io fossi acqua
un’invecchierei negli anni
S’io fossi terra girerei in tondo
S’io fossi legno mi chiamerei
Gianni
Ma dal momento che non sono
niente
Resto un comune essere
vivente.
Quale debole siepe fu l’amore
Che il vento un giorno ha
portato via
In un mattino pieno di colore
Mi è passata anche la
malattia
E mi batteva tanto forte il
cuore
Che m’è scomparsa anche
l’antipatia
L’amore se ne andò via a
Torino
E lo rincorsi là come un
cretino
Se l’orso nero avesse detto al bruno
Vatti a buttare giù nel
grande fosso
Ne resterebbe di orsi solo
uno
Ma l’orso bruno era molto
scosso
E l’orso bruno preferì il
digiuno
Il nero gli tirò un sasso
addosso
E l’orso bruno andò
all’ospedale
Co un ringhio minaccioso da
cinghiale
Per la città correva un uomo nero
Con un mantello tutto rosso e
bianco
Che è andato a sbatter forte contro
a un pero
E s’è accasciato mogio su di
un fianco
Ma si è rialzato bello, figo e
fiero
E poi è andato a dormire stanco
Ma si svegliò a mangiar le pere
cotte
Perché gli venne fame a
mezzanotte
I poeti lavorano di notte
Vedono le mamme andare a
letto
Hanno le scarpe grigie e
tutte rotte
E si dipingono di blu il
petto
E se si guardano si danno
botte
Di carne poi ne comprano un
pezzetto
E se non trovano una bella
rima
Riusano sempre quella di prima